Analisi combinatoria, teoria della rappresentazione, teoria degli invarianti: un "ménage à trois"1
Ottavio Mario D'Antona2, Gian Carlo Rota3
This paper is a learned and pleasant conversation on the state of researeh in these three branches of mathematics. The authors talk about amusing anecdotes of Cambridge in the 1950's before turning to the character Alfred Young. Then there is a disquisition on the two types of exinsting mathematicians: the problem solvers and the theoricians. The former only find interest in the resolution of a problem, while the latter generate a theory which ends by making the original problem trivial. Hermann Grassmann and the external algebra are then mentioned. The article finishes with an interesting consideration on the fundamental question: when two mathematicians meet and check their reciprocal mathematical knowledge, what really matters to them is the understanding of the basic problem of the other.
1.1 Introduzione
La gioia di ritrovarmi qui, tra un gruppo di vecchi amici, a festeggiare il compleanno di uno dei miei amici più cari si confonde con una forte tentazione. Siete voi stessi, seduti qui davanti a me, costretti ad ascoltarmi per i prossimi quarantacinque minuti, ad offrirmi su un vassoio d'argento, l'occasione che da lungo tempo aspettavo:
l'opportunità di presentare gli ultimi risultati della mia ricerca ad un auditorio la cui competenza e conoscenza nel campo dell'Analisi Combinatoria non potrà mai più essere riprodotta. Che occasione unica, quella di infliggervi i fondamenti dell'algebra supersimmetrica, i concomitanti dei tensori antisimmetrici o, perché no, la risoluzione in caratteristica libera dei moduli di Weyl!
Come potete ben notare, il solo echeggiare di queste parole ha determinato un improvviso abbassamento della temperatura nella sala. Un brivido di freddo vi percorre la schiena alla sola idea di essere sottoposti a questo genere di seduta punitiva! Ma vi posso assicurare che non approfitterò così platealmente del tempo che generosamente mi avete concesso o, almeno, non lo farò deliberatamente. Al contrario, mi addentrerò insieme a voi in un argomento di indiscusso e duraturo interesse per i matematici di tutti i tempi: il pettegolezzo.
In altre parole, per dirla in termini più adeguati, ci occuperemo di... storia della matematica. Pertanto, i prossimi quarantacinque minuti saranno così ripartiti:
1. Introduzione.
2. Aneddoti della Cambridge degli anni '50.
3. AlfredYoung.
4. I risolutori di problemi e i teorici.
5. Hermann Grassmann e l'algebra esterna.
6. Definizioni matematiche e descrizioni matematiche.
7. Il "problema di fondo".
1.2 Aneddoti della Cambridge degli anni '50
Gli anni '50 furono un periodo grandioso, e il gruppo di giovani matematici che passarono attraverso le università di Boston e dintorni potrebbe oggi riempire il Who's Who della matematica.
Il fulcro dell'attività era la sala di ritrovo del Dipartimento di Matematica del MIT che venne rinnovata nel 1957 e poi abbandonata a se stessa. In vari momenti della giornata ci si poteva incontrare Paul Cohen, Eli Stein e, in seguito, Gene Rodemich e altri giovani ricercatori, pronti ad un enfatico scambio di domande, di problemi aperti e di altre reciproche sfide alla propria cultura ed abilità matematica.
L'animatore indiscusso di questi incontri era Adriano Garsia, affiancato occasionalmente da Jurgen Moser e John Nash. A volte, una discussione iniziata nella sala di ritrovo continuava senza interruzione a pranzo, alla mensa Walker dove abitualmente i matematici consumavano i pasti. Seduti sempre allo stesso tavolo, erano facilmente riconoscibili tra i frequentatori del Walker Memorial.
Spesso, Norbert Wiener si univa ai giovani matematici per il pranzo. A Wiener piaceva molto sedersi a quei vecchi tavoli di legno. Wiener era raggiante nel cogliere su di sé gli sguardi degli studenti dei primi anni e gustava la palese ammirazione dei matematici più giovani. La tentazione di prenderlo in giro era proprio irresistibile. Voglio raccontarvi una piccola storia su Wiener, un episodio che qui, in quest'aula, soltanto un'altra persona conosce già. Un giorno stavamo pranzando seduti al solito tavolo della mensa e Norbert Wiener sedeva a capotavola con Paul Cohen alla sua destra. C'erano Adriano Garsia e Arthur Mattuck; c'ero io, e c'era anche qualcun altro che ora non ricordo. A un certo punto, Paul Cohen si girò verso Wiener e gli chiese, con aria di finta innocenza: "Professor Wiener, cosa farebbe se, tornando a casa una sera, trovasse il Professor X seduto sul divano del suo salotto?".
Cohen alludeva ad un collega ben noto per la sua tendenza alla... nostrificazione. A proposito, il termine nostrificazione venne coniato da Hilbert per indicare una pratica che è stata fedelmente rispettata dai suoi studenti e seguaci. Comunque, a questa domanda, Norbert Wiener divenne rosso in faccia e rispose con foga: "Lo sbatterei fuori di casa e andrei subito a controllare l'argenteria".
Lascio a voi il compito di immaginare chi fosse il Professor X.
Altre volte la sala di ritrovo, invece di ospitare le usuali sfide matematiche, era teatro di incontri di "graduatoria". In queste occasioni, nessuno sapeva resistere alla tentazione di praticare il passatempo preferito dai matematici alle prime armi: spiccare giudizi sui matematici affermati e classificarli in ordine rigorosamente lineare!
Mi ricordo la accesa discussione di quel giorno in cui dibattemmo a lungo se il Professor Y doveva essere considerato un matematico di prim'ordine tra i matematici di second'ordine, oppure un matematico di second'ordine tra quelli di prim'ordine. Onestamente non ricordo la posizione di Adriano in quell'occasione, ma posso dirvi che di solito ci trovavamo dalla stessa parte. Eravamo entrambi convinti che John Nash fosse il più elegante matematico che mai avessimo incontrato e credo che, da allora, nessuno di noi abbia cambiato idea. Ci fu un periodo in cui avevo l'abitudine di prendere una pillola di Nodoz ogni volta che mi recavo nella sala di ritrovo, ma poi decisi di non andarci più. Non sopportavo il caldo che c'era. Comunque Adriano si prendeva cura di tenermi aggiornato sugli ultimi avvenimenti. Devo proprio dire di aver imparato tanta matematica da quelle "lezioni private" di Adriano. Ad esempio, in uno dei mesi della primavera del '58, Adriano fu così gentile da impegnarsi in una serie di dieci lezioni sulla teoria delle "superfici di Schottky" che aveva sviluppato nei suoi primi anni al MIT. Adriano le aveva chiamate così in onore di un certo Schottky. Oltre ad avermi insegnato praticamente tutta la geometria differenziale che conosco, Adriano mi diede l'opportunità di ascoltare per la prima volta il nome di Schottky, un nome che non sentii più pronunciare fino ad un paio di anni fa quando Paul Erdos mi raccontò un episodio che rasenta l'incredibile e che vi racconterò tra poco.
In quegli anni, né Adriano né io avevamo la più pallida idea del fatto che ci saremmo poi occupati di Analisi Combinatoria. Non soltanto la locuzione "Analisi Combinatoria" non esisteva nemmeno, ma i problemi di moda, quelli con cui i matematici si confrontano l'un l'altro, provenivano dall'Analisi Infinitesimale e non certo dall'Analisi Combinatoria come invece oggi succede sempre più spesso: il nostro ideale era la raccolta di problemi di Polya e Szego. Adriano ricordava spesso e volentieri due dei suoi maestri provenienti dalla stessa grande scuola tedesca di analisti: Karl Loewener e Marcel Riesz. Anni dopo, quando incontrai Loewener e Riesz, mi capitò di osservare una certa familiarità con Adriano. Tra l'altro, le prime volte, quasi non riuscivo a credere a certe storie su Marcel Riesz che Adriano mi raccontava. Un esempio? L'abitudine che Riesz aveva di non depositare in banca la busta paga: nascondeva l'assegno sotto il materasso! E così, quando Riesz fu invitato in Svezia, Adriano dovette passare tutta una giornata in giro per banche ad incassare assegni.
1.3 Alfred Young
Credeva, Alfred Young, che il suo più grande contributo alla storia della matematica fosse l'applicazione della teoria della rappresentazione al calcolo degli invarianti. Young sarebbe allibito se gli avessero predetto che oggi il suo nome viene pronunciato con il massimo rispetto in riferimento ai tableaux standard! In effetti la storia dei tableaux standard è, di per sé, un interessante capitolo della storia della matematica. Come certo sapete, Alfred Young fece il suo debutto nel mondo della matematica con un difficile calcolo dei concomitanti delle quartiche binarie: un vero e proprio tour de force che prese le mosse dall'elegante (e ingiustamente dimenticato) teorema di finitezza di Peano. Mentre sviluppava un metodo per il calcolo delle sigizie tra gli invarianti delle quartiche, Young si rese conto dei limiti delle tecniche combinatorie sviluppate da Clebsch e Gordan. Young allora si immerse in un periodo di ricerca che durò qualche anno. Subito dopo, diede alle stampe i primi due articoli della serie "Analisi quantitativa sostituzionale". In quei lavori, pubblicati all'inizio del secolo, Young delineò la odierna teoria della rappresentazione del gruppo simmetrico. Young fu il primo a dimostrare che il numero di rappresentazioni irriducibili del gruppo simmetrico è dato dal numero di partizioni dell'ordine del gruppo. Young diede anche una decomposizione esplicita delle algebre di gruppo in componenti irriducibili tramite idempotenti. Tali componenti vennero ottenute con strumenti combinatori.
A tutt'oggi, la costruzione di Young delle rappresentazioni irriducibili del gruppo simmetrico è la più semplice, anche se non si può dire che sia la più elegante o la più facile da usare. Alfred Young non fece ricorso alla teoria della rappresentazione che, a quel tempo, era chiamata teoria dei caratteri dei gruppi. In effetti, la stessa parola "gruppo" appare raramente nelle settecento e passa pagine dell'opera omnia di Young. Se ne può certamente dedurre che Young diffidasse della teoria generale dei gruppi, tant'è vero che non usò mai la locuzione "sottogruppo normale". Comunque, sembra proprio che i risultati di Young diedero un certo fastidio al più celebrato algebrista del tempo: niente po' po' di meno che il Professor Frobenius dell'Università di Berlino!
"Cosa?!?" - esclamò probabilmente Frobenius - "Questo giovanotto inglese ha utilizzato soltanto dei rudimentali strumenti combinatori ed è riuscito a trovare ciò che nessun rappresentante della sofisticata scuola tedesca è mai riuscito a scoprire?".
Frobenius si mise allora a studiare con cura i capitoli delle due pubblicazioni di Young che trattavano la teoria della rappresentazione, tralasciando bellamente le parti relative alle applicazioni della teoria degli invarianti: un argomento che non poteva sopportare. Frobenius lavorò intensamente e ben presto pubblicò un articolo in cui gli stessi risultati di Young venivano derivati in ossequio alla nuova teoria dei caratteri dei gruppi, la teoria che lo stesso Frobenius aveva appena messo a punto. In fondo, Frobenius era un Bourbakista. e il suo modo di trattare la teoria della rappresentazione è rimasto in auge fino ad oggi. A onor del vero, Frobenius si spinse un passo più in là di Young. Frobenius infatti scoprì la formula dei caratteri che oggi porta il suo nome: Young aveva commesso una svista imperdonabile!
Quando venne a conoscenza del lavoro di Frobenius, Young si sentì ferito. Per di più, proprio quando Young si apprestava a pubblicare i suoi due lavori sull'analisi sostituzionale, Frobenius assegnò come argomento di tesi al suo miglior studente, Issai Schur, il compito di determinare tutte le possibili generalizzazioni della formula di Binet-Cauchy per il prodotto dei minori di due matrici. Nella sua tesi, pubblicata nel 1900, Issai Schur fu in grado di trovare tutte le rappresentazioni irriducibili del gruppo generale lineare in termini delle loro tracce, che oggi sono chiamate... funzioni di Schur. Young si rese subito conto di quanto il suo lavoro fosse collegato alla tesi di Schur. La similitudine dei risultati, anche se ottenuti in modo radicalmente diverso, era imbarazzante.
Di conseguenza, per quasi i primi vent'anni del secolo, Young non publicò più nulla. Ai colleghi incuriositi che cercavano spiegazioni veniva sistematicamente fornita la risposta evasiva (e ovviamente falsa) che... Young stava studiando il tedesco per capire meglio i lavori di Frobenius. Niente affatto! Young era tutto teso nello sforzo di superare Frobenius.
E, nel 1923,Young ce la fece!
Dopo più di vent'anni dalla pubblicazione del suo secondo lavoro, venne dato alle stampe il terzo contributo di Young all'"Analisi quantitativa sostituzionale" in cui vennero introdotti i tableaux standard, ne fu calcolato il numero e venne descritto il loro collegamento alla teoria della rappresentazione. Anche in questo caso, l'approccio di Young era puramente combinatorio: neanche un'epsilon di teoria dei gruppi o dei caratteri. La nuova dimostrazione della formula dei caratteri di Frobenius, senza ricorrere alla teoria della rappresentazione come oggi la conosciamo, era interamente basata su tecniche combinatorie. Il periodo di imbarazzato silenzio si rinnovò. Gli algebristi tedeschi proprio non volevano dare ascolto alla teoria di Young. Se non fosse stato per l'intervento di Hermann Weyl, le neonate tabelle di Young sarebbero state confinate ad Aberystwyth, nel Galles, a far buona compagnia alla apolarità e ai perpetuanti. Fu infatti Hermann Weyl che, imbattutosi nel lavoro di Young durante la stesura del suo libro alla fine degli anni Venti, gli attribuì la giusta importanza. Ed è proprio nel libro di Weyl che si trova la prima occorrenza scritta del termine "tabelle di Young". Quel libro ("Teoria dei gruppi e meccanica quantistica") venne poi riscritto e aggiornato circa quarant'anni dopo da Leona Schensted. Poiché a quel tempo Hermann Weyl era al vertice della piramide della matematica d'avanguardia, non ci volle molto prima che il nome di Young diventasse familiare presso i fisici, e poi anche tra i matematici.
Van der Waerden incluse le tabelle di Young in una delle ultime edizioni del suo "Modern Algebra", mentre invece Hodge, il geometra, conobbe il concetto tramite un giovane collega di Young: il professor D. E. Littelwood. Hodge sfruttò largamente l'idea nei suoi studi successivi. L'atteggiamento di Alfred Young nei confronti delle sue idee era della massima apertura e generosità. Una volta al mese, Tumbull lasciava St. Andrews (Scozia) per recarsi a Cambridge (l'altra Cambridge) per incontrarsi con Young. Fu poi Philip Hall a rifinire le idee di Young sulle funzioni simmetriche e a renderle pubbliche per la prima volta nella "Lettera ad un collega di Edimburgo" di Aitken. Le varie definizioni equivalenti di funzioni di Schur apparvero in stampa in un lavoro di Philip Hall dal titolo "L'algebra delle partizioni". Il lavoro non conteneva dimostrazioni e per molti anni non si ebbe nessuna dimostrazione della equivalenza di tutte quelle definizioni: un fatto che ci ha costretto ad elaborare le nostre personali dimostrazioni. Oggi, lo stile della esposizione matematica di Young è scomparso.
Peccato! Era uno stile basato sull'ipotesi che il lettore dovesse essere trattato come un gentleman con una solida cultura matematica. E non è certo il caso di annoiare lettori di tal rango con i dettagli delle dimostrazioni. La conseguenza è che a volte ci si trova di fronte a dei veri e propri rompicapi nel tentare di capire quei passaggi in cui Young, per non offendere il lettore, tralascia ogni spiegazione.
G. De B. Robinson fu l'unico studente di Young. Sulla base degli appunti del suo maestro, Robinson scrisse il nono (e ultimo) lavoro sulla analisi sostituzionale quantitativa. Alla morte di Young, Robinson ereditò tutti i suoi manoscritti. Non è certo il caso di stare qui ad alambiccarci il cervello sulla fine di quegli scritti. Vi basterà sapere che, circa quindici anni fa, l'opera omnia di Young venne pubblicata dalla Toronto University Press al prezzo assurdo di 10$ la copia. L'operazione editoriale venne sostenuta da un ignoto sponsor. Il volume è tuttora in vendita.
1.4 I risolutori di problemi e i teorici.
I matematici possono essere ripartiti in due classi. Infatti ci sono i risolutori di problemi e ci sono i teorici. Va subito detto che, in generale, i matematici sono un miscuglio di questi due tipi. Eppure non è difficile trovare i casi estremi di ciascuna delle due classi. Ognuno di noi può individuare il suo rappresentante favorito.
a) I risolutori di problemi
Per il matematico di questo tipo, il massimo della vita è la risoluzione di un problema che era stato dichiarato senza via d'uscita. Poco importa se la sua soluzione sarà complicata. Ciò che conta è essere il primo, e poi che la soluzione sia esatta.
Appena ha trovato la soluzione, questo matematico perde interesse all'argomento e darà ascolto alle successive e (spesso più semplici) soluzioni con una malcelata aria di accondiscendenza e noia. In fondo al suo cuore, il risolutore di problemi è un conservatore che considera la matematica come una successione di sfide da vincere, un po' come una corsa ad ostacoli. Per lui i concetti attraverso cui i problemi matematici vengono presentati devono essere eterni ed immutabili; la descrizione dei concetti matematici è un'attività di secondo piano; e le nuove teorie meritano il più vivo... sospetto. Ad esempio, prima di prendere in considerazione una nuova teoria, questa deve essere in grado di porre dei grandi interrogativi. Il risolutore di problemi disprezza le generalizzazioni: soprattutto quelle che rendono banali le sue soluzioni!
Il risolutore di problemi è l'idolo dei giovani matematici che vogliono dimostrare il loro valore seguendo un'intrepida guida. D'altra parte, ognuno di noi, nel momento di descrivere le conquiste della matematica al vasto pubblico, finisce per fare riferimento a queste luminose figure.
b) I teorici
Per i teorici, invece, la più grande soddisfazione matematica è... una teoria. Per questa persona, il successo matematico non risiede nella soluzione di un problema, bensì nella sua... banalizzazione.
Per questi matematici, la gloria arriva mettendo a punto una nuova, splendida teoria che svuota della loro importanza i vecchi problemi e li trasforma in annose questioni sul gioco degli scacchi. In fondo al suo cuore, il teorico è un rivoluzionario. Agli occhi del teorico, i concetti matematici del passato devono essere considerati con circospezione come parti di una verità più generale non ancora scoperta. Di conseguenza, la presentazione della matematica è considerata impresa ancora più difficile della ricerca stessa. Il teorico crede profondamente che le definizioni matematiche avranno vita eterna. Ecco: il grande contributo della matematica alla cultura umana è costituito da solide definizioni. I teoremi sono... un male necessario, sono degli accessori che aiutano a capire le definizioni. Qualche teorico potrebbe addirittura arrivare a dire (ma controvoglia) che i teoremi sono indispensabili per capirle. Non è insolito che un teorico venga accettato a stento nella comunità matematica. Di fronte a questo spiacevole atteggiamento il teorico si consola con la convinzione che le proprie teorie saranno ancora vitali quando i problemi "alla moda" saranno bellamente dimenticati. La mia conclusione è semplice. Se io fossi un ingegnere spaziale e dovessi assumere un matematico in un programma per l'invio di una navicella nel cosmo, sceglierei, senza dubbio, un risolutore di problemi. Ma se io fossi un padre di famiglia alla ricerca di un matematico in grado di dare una buona educazione ai miei figli, sceglierei senza esitazioni un teorico.
1.5 Hermann Grassmann e l'algebra esterna.
Alfred Young, piuttosto che un teorico, era un risolutore di problemi. D'altro canto uno tra i più grandi matematici dell'800 è stato un teorico. Mi riferisco a Hermann Grassmann.
Tutti sono d'accordo nel dire che il più consistente contributo di Grassmann alla Matematica sia stata la definizione di Algebra Esterna. Grassmann spese tutta la sua vita a precisare e a sviluppare questa definizione e non contribuì alla soluzione di nessuno dei problemi di moda al suo tempo. Anzi, per la precisione, Grassmann non risolse mai nessun problema, a parte quelli che si era posto lui stesso. Grassmann, infatti, non portò nessun contributo alla soluzione dei grandi quesiti del secolo come, ad esempio, la teoria classica degli invarianti, la teoria della eliminazione o la teoria delle curve algebriche.
Ma c'è di peggio. Nella disapprovazione generale, Grassmann riscrisse alcuni capitoli della matematica del tempo nel linguaggio dell'algebra esterna. E ancora, Grassmann fu il primo ad indicare che gran parte della fisica classica poteva essere semplificata con la notazione dell'algebra esterna. In tal modo, anticipò il calcolo delle forme differenziali esterne che venne poi sviluppato da Elie Cartan nel secolo successivo. Infatti tutto il lavoro di Gibbs e di Dirac sarebbe stato grandemente semplificato se i due avessero conosciuto anche soltanto superficialmente il concetto di Algebra Esterna. Invece questo concetto non è stato altro che un'ulteriore "occasione mancata", per usare le parole di Freeman Dyson. In fondo, non c'è da stupirsi più di tanto se Grassmann non venne accettato con entusiasmo nell'ambiente matematico. Chi si presenta sulla scena con delle nuove idee è destinato a farsi dei nemici. Si può ben capire come a nessuno faccia piacere essere invitato a mettere da parte quello che sta facendo per prendere in seria considerazione l'avvento di un'idea nuova. E così, il nostro si fece molti nemici! Per di più, l'animosità nei confronti della sua grande intuizione non si è ancora spenta.
Le reazioni all'approccio di Grassmann costituiscono un capitolo umoristico nella storia della matematica. Per esempio, il Professor Pringsheim, leader dei matematici tedeschi, e autore di più di cento corpose pubblicazioni sulla teoria delle serie infinite (vuoi convergentì, vuoi divergenti) ebbe a consigliare a Grassmann di occuparsi di qualche argomento veramente importante invece che perdere tempo con le sue sterili elucubrazioni. Con lo spessore che la sua posizione gli conferiva, Pringsheim si chiedeva: "Ma perché non si interessa a qualcosa di veramente utile come la elaborazione di qualche nuovo criterio di convergenza delle serie infinite!?!". Anche la consorteria della teoria degli invarianti, guidata da Clebsch e da Gordan, ebbe a ridire - e non in tono minore - che il lavoro di Grassmann era fasullo per il buon motivo che non era in grado di fornire neanche un solo risultato alla teoria degli invarianti delle forme binarie. Certo che si sbagliavano, e di grosso! Ma nessuno fu in grado di dirglielo per almeno 50 anni!
Neanche Hilbert prestò molta attenzione a Grassmann. Nel secondo volume della sua opera omnia ho trovato una sola citazione di Grassmann: in una nota a piè di pagina. D'altra parte, lo stesso Eduard Study, curatore dell'edizione integrale dei lavori di Grassmann, aveva una comprensione parziale del concetto di algebra esterna. Infatti l'ultimo libro di Study dal titolo "Algebra vettoriale" (in tedesco, "Einleitung in die Theorie der Invarianten linearer Transformationen auf Grund der Vektorrechnung") avrebbe avuto tutto da guadagnare dalla adozione dei concetti della algebra esterna. Concetti con cui Study non sì sentiva abbastanza a suo agio. Le malelingue dicevano che nel lavoro di Grassmann non c era niente di veramente nuovo: in fondo si trattava di un miscuglio del calcolo baricentrico di Moebius, di coordinate pluckeriane e di algebra di von Staud. La tipica obiezione era: "Cosa si può dimostrare con l'algebra esterna che non si potesse dimostrare prima?".
Quando si ascolta questa domanda, si può essere sicuri di essere alla presenza di qualche nuova, importante realtà matematica. Negli anni passati la abbiamo sentita formulare a proposito delle variabili aleatorie, della teoria delle distribuzioni di Laurent Schwartz, degli idèles e degli schemi di Grothendieck. Una buona risposta a questa strana domanda potrebbe essere la seguente: "È vero! Non c'è niente che si possa dimostrare con l'algebra esterna che non si potesse dimostrare prima. Ma si dà il caso che l'algebra esterna non è da considerarsi uno strumento per dimostrare vecchi problemi, bensì un mezzo per intravedere un mondo nuovo. Aprire una finestra su un nuovo mondo è un merito matematico pari a quello di risolvere vecchi problemi".
Il primo matematico che si rese conto dell'importanza dell'algebra esterna fu Giuseppe Peano che pubblicò una breve ma bellissima introduzione all'argomento. Purtroppo però, a quel tempo, Peano era un semplice istruttore della Scuola Militare di Pinerolo e il pubblico di quelle lezioni sull'algebra esterna - lezioni che dobbiamo ritenere splendide - era interamente composto da ufficiali e allievi ufficiali della cavalleria italiana. Non c'è da stupirsi se nessuno prestò la minima attenzione al libro di testo di Peano: un volume che venne stampato in 300 copie, nella sua prima ed unica edizione.
Passarono quasi cento anni prima che i matematici iniziassero a realizzare l'importanza della scoperta di Grassmann: forse questo è il destino dei grandi matematici che dedicano la loro vita alle definizioni!
1.6 Definizioni matematiche e descrizioni matematiche.
L'idea di fornire delle "definizioni" precise all'interno di un sistema assiomatico costituisce uno dei grandi risultati della matematica di questo secolo. Un oggetto matematico deve (e può) essere definito con precisione. E l'unica via per evitare illusioni.
Tutto preso dal sottolineare l'importanza delle definizioni, il nostro secolo ha lasciato poco spazio alla vecchia nozione di "descrizione" di un oggetto matematico. "Descrivere" e "definire" sono due attività ben distinte che spesso vengono confuse tra loro. La differenza tra "descrizione" e "definizione" può essere apprezzata ricorrendo a questo semplice esperimento mentale.
Supponiamo di essere sul punto di introdurre una nuova nozione matematica nel nostro corso. Sappiamo tutti che non ce la potremo cavare scrivendo una definizione sulla lavagna: prima o poi dovremo pur dare una descrizione di ciò che abbiamo appena definito.
In questi anni, per descrivere un nuovo oggetto o concetto matematico è d'uso fornirne una serie di definizioni equivalenti. Si tratta di un fenomeno che, non da poco, ha lasciato perplessi i filosofi: come è possibile dare definizioni così diverse dello stesso oggetto matematico?
Nei tempi andati, i concetti matematici venivano prima descritti, e poi definiti. Euclide è stato l'eccezione alla regola. Ma Euclide aveva anticipato i tempi. Nel passato, a parte la geometria, l'esigenza di definizioni non era neanche sentita. Gli ultimi due secoli ci confermano che la matematica può benissimo svilupparsi senza definizioni. Ma non certo senza descrizioni! È pur vero che i matematici di tutti i tempi hanno detto a chiara voce che le definizioni sono conditio sine qua non della esposizione matematica. Ma è altrettanto vero che, anche i matematici, non sempre mettono in pratica ciò che predicano. Consideriamo, a questo proposito, alcuni esempi illuminanti.
Il primo riguarda i numeri reali. Prima di Dedekind, il campo dei numeri reali non ebbe una definizione rigorosa. Dovremmo allora ritenere che tutto il lavoro precedentemente svolto sui numeri reali debba essere discreditato come un nonsenso? Ma certo che no.
Il secondo esempio si riferisce al concetto di tensore. Quando ero uno studente alle prime armi a Princeton, il Professor D. C. Spencer definì un tensore come "un oggetto che trasforma secondo regole predeterminate". La stessa definizione che si ritrova sul libro di geometria differenziale di Luther Pfahler Eisenhart: un testo che ancor oggi è considerato il migliore. Era chiaro a tutti che quella frase priva di senso era tutt'altro che una definizione. Non a caso, tutte le volte che quella caratterizzazione veniva ripetuta, si sviluppava piano piano un significativo mormorio. Eppure, l'assenza di una buona definizione del concetto di tensore non ha certo impedito ad Einstein, a Levi Civita e a Cartan di sviluppare quelle che sono tra le più belle pagine della matematica di questo secolo. Tra l'altro, credo che la prima buona definizione di tensore che iniziò a circolare negli anni '50 si sviluppò sotto l'influenza di Chevalley o, forse, dovrei dire, di Bourbaki. Comunque, è ancora più sorprendente che la prima definizione rigorosa di tensore venne formulata proprio quando i tensori... passarono di moda, anche se momentaneamente.
D'altra parte tutti noi sappiamo che una gran parte della ricerca matematica è devoluta alla ricerca di definizioni che diano la giustificazione di quanto già sappiamo essere vero. L'esempio più clamoroso di questo stato di cose è senz'altro la formula dei poliedri dovuta ad Eulero, a Shafli e a Poincaré. Questa formula era ritenuta valida ben prima che la nozione di poliedro fosse sviluppata in tutta la sua generalità. Per trovare una definizione che desse conto della formula di Eulero-Shafli-Poincaré ci vollero più di cento anni, durante i quali, nessuno mise in dubbio la validità della formula. Il filosofo Imre Lakatos ha documentato questa ricerca della giusta definizione con meticolosa precisione storica. Stranamente, il suo lavoro documentato nel libro "Proof and refutations. The logic ofmathematical discovery" ha suscitato le ire di quella parte dei matematici che considerano sacro e inviolabile il metodo assiomatico. In poche parole, il libro di Lakatos divenne un anatema tra i filosofi della scuola analitica.
Si sa: la verità offende!
Non c'è dubbio: Hermann Grassmann credeva nelle descrizioni. Non gli passava neanche per la testa di dare definizioni nel senso odierno della parola. Ed è molto probabile che il suo stile descrittivo, sviluppatosi proprio nel momento in cui il metodo assiomatico stava assumendo i caratteri del fanatismo, sia stato una delle cause del disinteresse per il suo contributo. In effetti, il primo trattamento rigoroso dell'algebra esterna venne svolto, negli anni '40, da Bourbaki nel terzo capitolo del suo libro di Algebra. Ci piace ricordare che probabilmente si tratta del miglior volume da lui scritto (o dovrei dire lei?). Infatti, per dirla alla francese, ogni successivo rifacimento di questo volume "fait regretter les précédents". Posso proprio dirvi che tutti i matematici della mia generazione, e della precedente, hanno imparato l'algebra esterna sul Bourbaki.
Tanto per fare un esempio, questo è ciò che fece Emil Artin, all'inizio degli anni '50, quando stava inventando la coomologia di Galois.
A questo punto però non posso fare a meno di raccontarvi un episodio personale. Nel 1951, andai da Princeton a NewYork per visitare il negozio di Stechert-Hafner, sulla IV Avenue: un'enorme libreria universitaria che ora è fallita. Stechert-Hafner sembrava più un magazzino che una libreria. I libri erano sparpagliati dappertutto senza un ordine particolare: pronti per essere spediti alle biblioteche delle università. Uscito dall'ascensore al terzo piano, andai verso un'impiegata che stava lavorando con una calcolatrice e che sembrava essere l'unica persona presente. Dopo un po' la donna mi prestò attenzione. Mi guardò di traverso. Prima che io potessi dire una sola parola, mi puntò un dito contro e disse: "So che tipo sei! Tu cerchi i libri di Bourbaki!". Era vero. Mi fece uno sconto generoso e... non la dimenticherò mai. 1.7 Il "problema di fondo".
In qual modo i matematici stabiliscono il contatto?
Ecco un problema che non è stato ancora studiato dai professionisti della psicologia. Proviamo allora ad avanzare una teoria da dilettanti.
Quando due matematici si incontrano e verificano le reciproche conoscenze matematiche, ciò di cui sono veramente interessati è cercare di capire qual è il problema di fondo dell'altro.
Non sarebbe privo di interesse definire precisamente cosa sia "il problema di fondo". Ma tant'è, in assenza di definizioni, accontentiamoci di descrizioni tipiche. Per chi si occupava di geometria algebrica negli anni '60 il problema di fondo era la dimostrazione delle congetture di Weil. Per generazioni di algebristi tedeschi, da Dirichlet a Hecke ed Emil Artin, il problema di fondo era la teoria dei numeri algebrici. Per i topologi di Princeton degli anni '50, '60 e '70 il problema di fondo era la omotopia. Per gli analisti funzionali di Yale e Chicago il problema di fondo era... lo spettro. Per molti degli odierni combinatorici il problema di fondo è l'equazione diYang e Baxter o la teoria della rappresentazione o l'algoritmo di Schensted. D'altra parte, nella prossima decina d'anni, la teoria della eliminazione potrà essere il problema fondamentale per qualche algebrista e per qualche esperto di analisi combinatoria. Per quanto mi riguarda, non ho nessun ritegno a dirvi che il mio problema di fondo è... il problema delle palline nelle scatole. Un tema che, con il tatto sopraffino che solo lei poteva avere, Florence Nightingale David denominò - nel libro "Combinatorial Chance" - teoria della distribuzione e della occupazione.
Tutti noi facciamo riferimento al nostro "problema di fondo" quando scriviamo una lettera di presentazione. Se il problema di fondo del matematico che la riceve è vicino al nostro, allora la nostra lettera avrà una certa efficacia. Altrimenti...
Fu Erdos a raccontarmi il più clamoroso equivoco attorno al "problema di fondo". Quando Hilbert, che già era professore incaricato all'Università di Koenigsberg venne preso in considerazione per una cattedra a Gottingen, il Ministro prussiano chiese a Frobenius di scrivere una lettera per appoggiare la candidatura di Hilbert. Ecco le parole di Frobenius: "Non c'è dubbio che si tratti di un buon matematico, ma non sarà mai all'altezza di Schottky!".
Lasciatemi ricordare ancora un paio di episodi personali.
Nel '57, il primo anno in cui avevo un incarico di insegnamento a Cambridge, mi trovavo occasionalmente a pranzo con Oscar Zariski che ci teneva a praticare il suo italiano. Un giorno, pranzando nel salone dell'Harvard Faculty Club, Zariski mi guardò in faccia, impugnò la forchetta e disse - così forte che tutti lo potessero sentire - "Ricordati! Qualunque cosa succeda nella Matematica, è già successa nella Geometria Algebrica!". Non a caso, per almeno cent'anni, la Geometria Algebrica è stata il problema di fondo dell'intera matematica.
Il secondo episodio è più imbarazzante.
Un giorno, quando già ero professore associato, mentre percorrevo uno dei lunghi corridoi dell'MIT incontrai il Prof. Z, un matematico di una certa età con una consistente reputazione internazionale. Questi mi guardò e mi disse: "Non puoi negarlo. Tutta la teoria dei reticoli è banale!!!". Colto di sorpresa, non ebbi la presenza di spirito di controbattere che il lavoro sviluppato da Von Neumann sulla teoria dei reticoli era più profondo di qualunque contributo del Prof. Z. Ma intanto, non mi sarebbe stato a sentire.
Chi di noi ha raggiunto una certa età non può aver dimenticato il viscerale rifiuto nei confronti della teoria dei reticoli che si era diffuso dagli anni '40 ai '70 e che ancor oggi non è del tutto scomparso. Una presa di distanza così generalizzata non può essere liquidata sulla base di attriti personali. È più ragionevole cercare di spiegarla in termini delle recondite differenze tra i problemi che erano considerati fondamentali da parte dei matematici del tempo. Muovendo i primi passi lungo questa linea di pensiero, arriveremo ben presto a renderci conto che quanto viene usualmente classificato come algebra, in realtà consiste di due ben diversi, anche se non disgiunti, campi. In assenza di termini più precisi potremmo chiamarli Algebra 1 e Algebra 2.
I problemi di fondo dell'Algebra 1 sono la geometria algebrica o la teoria algebrica dei numeri. Questa disciplina, che ha un pedigree molto più ricco dell'altra, ha raggiunto elevati livelli di sofisticazione e di efficacia. L'algebra commutativa, l'algebra omologica e, più recentemente, le categorie e i topoi sono i più significativi prodotti dell'Algebra 1. Siamo in un terreno così vasto che spesso due specialisti di Algebra 1 non siano in grado di comunicare tra loro. Comunque, nonostante le Cassandre, l'Algebra 1 gode di ottima salute.
L'Algebra 2, invece, ha una storia più accidentata. La sua origine può essere ricondotta a George Boole che pose le basi di tre dei suoi ben noti temi. Oltre all'algebra di Boole, abbiamo il calcolo operazionale (argomento su cui Boole scrisse due grandi libri), in cui la derivata è vista come un operatore, D. In terzo luogo viene la teoria degli invarianti. Boole infatti osservò che il discriminante di una forma quadratica è invariante sotto l'azione del gruppo speciale lineare, Ls-2. Grosso modo possiamo dire che tra il 1850 e il 1950, inglesi e italiani coltivarono l'Algebra 2, mentre l'Algebra 1 fu appannaggio di tedeschi prima e di francesi poi. Il problema di fondo di Capelli e di Young era profondamente radicato nell'Algebra 2, così come Kronecker e André Weil sono i campioni dell'Algebra 1.
L'Algebra 2 venne inizialmente sviluppata nell'ambito della teoria degli invarianti il cui scopo era la descrizione dei fenomeni geometrici che sono indipendenti dalla scelta delle coordinate. Fin dal secolo scorso questo sforzo portò allo sviluppo di algoritmi e di altre tecniche combinatorie. Infatti i primi combinatorialisti (MacMahon, Hammond, Brioschi, Trudi e Sylvester) venivano dalla teoria degli invarianti. Inoltre, uno dei primi contributi alla teoria dei grafi, un lavoro in cui venne introdotto il grafo di Petersen, era motivato da un problema di invarianti. L'idea guida di Clifford era infatti la riduzione del calcolo degli invarianti all'ambito della teoria dei grafi. Comunque, il più noto rappresentante dell'Algebra 2 nel secolo scorso fu Paul Gordan, un tedesco: l'eccezione che conferma la nostra regoletta etnica. La sua dimostrazione costruttiva della finitezza della generazione dell'anello degli invarianti delle forme binarie non venne mai migliorata (nemmeno da Hilbert) e preludeva alle odierne tecniche dell'algebra di Hopf. E nel 1870, Gordan pubblicò addirittura i risultati di base della programmazione lineare: una scoperta di cui non gli venne mai dato credito. Nonostante tutto, Paul Gordan fu sempre considerato un intruso dagli specialisti dell'altra Algebra. Non a caso, alla sua morte, Hilbert ebbe a dire: "Er war ein Algoritmiker".
Comunque, Emmy Noether, un'allieva di Gordan, diventò un apostolo dell'Algebra 1. Altrettanto fece van der Waerden (allievo del Generale Weitzenbock): un vero e proprio eroe dell'Algebra 2.
Negli anni '30, l'Algebra 2 venne arricchita dalla teoria dei reticoli e dall'algebra universale di Philip Hall e del suo allievo Garrett Birkoff. L'Algebra 2 ha sempre avuto una vita dura. Un esempio? In nessuna edizione dell'"Algebra moderna" di van der Waerden si può trovare il minimo accenno all'algebra esterna o al concetto di tensore. Infine G. H. Hardy pronunciò la condanna dell'Algebra 2 con le semplici parole: "Troppo f(D)!".
Beh! Credo proprio che Hardy si stia ancora rivoltando nella tomba.
A questo punto però, sono sicuro che la conclusione della mia tirata sia chiara a tutti. Infatti il problema di fondo per molti tra voi è proprio l'Algebra 2. Nel corso degli ultimi vent'anni, l'Algebra 2 è cresciuta, è fiorita e ha acquistato un nome proprio: Combinatoria Algebrica.
Nel momento della celebrazione di Adriano Garsia, uno dei più grandi rappresentanti dell'Algebra 2, dobbiamo riconoscere con piacere che la Combinatoria Algebrica, dopo un percorso lungo e accidentato, ha finalmente trovato, le sue posizioni di fondo e un ruolo consolidato nella Matematica dei giorni nostri.
Note:
1. Questo lavoro è basato sulla prolusione di G. C. Rota alla Conferenza di Combinatoria algebrica tenutasi a Taormina il 26 luglio 1994 in onore di Adriano Garsia.
2. Università Statale di Milano, Dipartimento di Scienze dell'Informazione; Via Comelico, 39; 20135 Milano.
3. MIT, Mathematics Department: 77 Massachusetts Avenue, 02139 Cambridge (USA).
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